S&P 4 – Case edificate, sogni demoliti

(NOTA: i nomi inseriti in questi racconti sono fittizi. I fatti sono reali)

Andrea a Giulia sognavano di sposarsi e di avere un bambino. I presupposti erano favorevoli: Andrea aveva un’ottima posizione lavorativa, essendo capo mastro di una piccola impresa edile. Il lavoro rendeva bene e non c’era nulla che ostacolasse i coniugi dal compiere il grande passo.
Peccato che il destino avesse in serbo ben altro per loro…

Tutto ebbe inizio un giorno come tanti, quando Giulia incontrò Francesca, un’amica d’infanzia che non vedeva da anni. Le due strinsero subito nuovi rapporti, che si rafforzarono ulteriormente nel momento in cui scoprirono che anche i rispettivi fidanzati si conoscevano già. Dopo qualche tempo Francesca rimase incinta e, insieme al suo ragazzo, Stefano, decise che era giunto il momento di prendere casa. Stefano possedeva un terreno di sua proprietà sul quale era intenzionato a tirar su il loro nido d’amore. Ma bisognava partire dalle fondamenta. Fu così che Stefano e Francesca chiesero ad Andrea di occuparsi dei lavori, il quale accettò senza indugio. Mentre Andrea e i suoi operai lavoravano alla nuova casa, Giulia assisteva la sua amica ritrovata rendendosi utile come poteva. Passarono i mesi e quando il bimbo di Francesca e Stefano venne alla luce, la casa stava per essere ultimata. Giulia quasi invidiava i suoi amici, che avevano già ottenuto quello che lei aveva sempre sognato. Ma voleva loro un mondo di bene. Era felice per loro ed era sua premura che non gli mancasse mai niente. Non vedeva l’ora che Andrea portasse a termine i lavori, così avrebbero potuto approfittare dei relativi guadagni per poter anch’essi metter su casa e famiglia.
Purtroppo non andò come speravano.

Stefano, con la scusa di alcuni problemi sorti all’ultimo momento, lasciò in sospeso i restanti pagamenti, che ammontavano all’incirca a 6000 €, soldi che erano destinati ai materiali impiegati, giorni lavorativi e lavoro degli operai. Andrea, per non tardare coi pagamenti, fu costretto a rimetterci di tasca sua, anticipando le somme dovute ai suoi operai e ai fornitori. Passarono sei mesi e Andrea tornò da Stefano per chiedergli che saldasse almeno una parte del debito. Questi, in tutta risposta, accusò lui e i suoi operai di avergli rubato un oggetto da collezione durante lo svolgersi dei lavori e, pertanto, non era intenzionato a pagarli finché non gli avrebbero reso il maltolto. Andrea sapeva che quella di Stefano era solo una ridicola scusa e che in realtà nessuno dei suoi uomini si era mai sognato di prelevare nulla dalle proprietà altrui senza previa autorizzazione.

La situazione stava precipitando e, dietro le accuse infondate dei due coniugi, Giulia fu costretta ad allontanarsi dalla sua amica. Passarono altri anni e Andrea, in preda alla disperazione, fece a Stefano un’ultima offerta: gli avrebbe tolto 2000 € dal suo debito, concedendogli di versargli i restanti 4000 con pagamenti rateali, anche di soli 100 € mensili. E per Stefano, che tutto sommato aveva un lavoro ben retribuito e possedeva un’altra casa dalla quale percepiva l’affitto, non sarebbe stato un grosso sacrificio. Ma lui, continuò imperterrito a negargli quanto dovuto, usando come giustificazione il fatto di avere un sacco di problemi e di non possedere la somma richiesta.

Da allora sono passati più di sei anni. L’impresa di Andrea non poteva più sostenere gli ingenti debiti che si erano accumulati e il povero capo mastro ha dovuto dichiarare fallimento e chiudere bottega. Oggi lavora in una nuova impresa edile, ma come semplice operaio. I due coniugi non hanno più potuto sposarsi, ma almeno ora hanno una splendida creatura da accudire, che ogni giorno guardano negli occhi con l’amarezza di chi non sa quale futuro potrà riservarle.
Quando gli capita di incontrare per strada i loro vecchi amici, questi fanno finta di non vederli e guardano nella direzione opposta, come se fossero stati loro a essere truffati.

Andrea e Giulia avevano coronato il sogno d’amore dei loro migliori amici, solo per vedersi in cambio distruggere il proprio…

S&P 3 – Gimme back my money!

(NOTA: i nomi inseriti in questi racconti sono fittizi. I fatti sono reali)

Alba aveva trovato un ottimo lavoro: receptionist in un rinomato albergo, dove tutti i suoi diritti le venivano garantiti. Giorno libero settimanale, ferie pagate, il tutto nel pieno rispetto dei dipendenti ai quali veniva addirittura garantito un ottimo pasto, non il solito panino fai-da-te o quella poltiglia da galeotto che alle volte servivano sui luoghi di lavoro. Inoltre, datori di lavoro gentili e disponibili, come non se n’erano mai visti. Un sogno divenuto realtà.

E lo stipendio era ottimo. Già, davvero ottimo… sulla busta paga, se non fosse stato per il fatto che, per ogni somma incassata tramite assegno, veniva ordinato ad Alba e agli altri dipendenti di recarsi in banca e prelevarne una cospicua parte – circa il 30-40% dell’intero stipendio – da restituire all’albergatore. Non appena scoprì l’amara verità, Alba vide crollarsi il mondo addosso.
Ma cosa poteva fare, con un marito malato e un figlio a carico? Di lavori decenti se ne contavano sulle dita di una mano e spesso i trattamenti erano ben peggiori. Cosa poteva fare in quelle condizioni, la povera Alba, se non tenersi il proprio lavoro e accettare il compromesso?

Resistette per qualche anno, e a un certo punto decise che era arrivato il momento di cambiare. Accettò un nuovo lavoro come receptionist in un altro albergo, nella speranza di ricevere un trattamento migliore. Ma non si aspettava certo che le cose precipitassero ulteriormente. Stessa storia dell’impiego precedente, una parte dello stipendio da restituire forzatamente al proprio datore di lavoro, a cui si aggiungevano ore extra non pagate. Il pranzo bisognava portarselo da casa, se non si voleva morire di fame, e le mansioni da svolgere andavano ben oltre il lavoro di portineria. Ad Alba, infatti, venivano affidati diversi incarichi che la costringevano a lasciare spesse volte la sua postazione, come servire i clienti al bancone del bar e ai tavoli; e le toccava fare anche i conti, dato che l’albergatore aveva ben pensato di risparmiare sulle spese da destinarsi a un ragioniere qualificato.

Stipendio quasi dimezzato, lavoro extra non pagato e demansionamento. Alba accettò tutto questo, solo per il bene della sua famiglia. Un sacrificio che, almeno per l’amore dei suoi cari, non sarebbe stato vano… forse…

S&P 2 – Horror at the Supermarket

(NOTA: i nomi inseriti in questi racconti sono fittizi. I fatti sono reali)

La ricerca di un lavoro, per Gioia, si protrasse per circa un anno, quando finalmente (o malauguratamente) riuscì a trovare un posto vacante come cassiera in un supermercato nemmeno troppo lontano da casa.  Il colloquio andò alla grande e Gioia si assicurò un contratto part-time con retribuzione di 500 € mensili. Tutto sommato niente male, pensò la giovane donna, alla quale però non era stato specificato che il “part-time” era da considerarsi tale solamente sulla carta, mentre l’orario di lavoro effettivo si sarebbe svolto dalle 7.30 alle 14.30, con spacco di un’ora e successiva ripresa dalle 15.30 alle 21.30. Ben 13 ore lavorative, inframezzate da una ridicola pausa e senza giorni di riposo, essendo prevista anche la mezza giornata domenicale. La cosa peggiore fu constatare di essere l’unica addetta alla cassa, nonostante la necessità di almeno una seconda cassiera, necessità derivante dal continuo viavai di clienti e la presenza di altre due casse che però sarebbero rimaste perennemente chiuse. Tali condizioni le precludevano la possibilità di assentarsi persino per andare due minuti al bagno. Anzi, spesse volte era addirittura costretta a sdoppiarsi, con l’ordine di impilare le cassette dell’acqua, allo stesso tempo senza smettere di occuparsi della cassa. Le uniche “occasioni” per congedarsi un po’ da quella vita assurda e frenetica si presentavano durante gli avvisi di controlli imminenti e cioè quando lei, non disponendo di regolare contratto, veniva spedita in fretta e furia a casa.

Fu un duro impatto per Gioia che, a denti stretti, decise comunque di andare avanti, soltanto perché aveva un disperato bisogno di quei soldi, seppur non sarebbero bastati ad affrontare tutte le spese che gravavano sulle sue spalle. Andò avanti così, passando intere giornate in piedi, poiché non le veniva concessa nemmeno una sedia per sedersi. Persino quando era febbraio e faceva un freddo cane, soprattutto lì dentro, dove non c’erano riscaldamenti e bisognava coprirsi bene, onde evitare di prendersi un malanno. La povera Gioia dovette soffrire il freddo fino ad aprile inoltrato, con i geloni alle mani e ai piedi e la circolazione venosa delle gambe che andava a farsi benedire. Le temperature costantemente basse sommate all’umidità nell’aria non giovarono affatto al suo stato di salute, e in quell’ultimo mese Gioia dovette recarsi in ospedale per subìre un intervento al ginocchio di rimozione di una cisti, che le si era formata e ingrossata proprio in quell’ultimo periodo.

Gioia decise di non denunciare l’amministrazione per le pessime condizioni di lavoro cui era stata sottoposta e che probabilmente erano state la causa dei suoi problemi di salute e della conseguente convalescenza. Si accontentò invece di presentare regolare richiesta di malattia alla quale, dopo pochi giorni, seguì una telefonata dall’amministrazione del supermercato che le comunicava l’avvenuto licenziamento, giustificato da una non meglio precisata “clausola” che, a loro dire, era presente nel contratto che lei aveva sottoscritto e che dava loro diritto di licenziarla in qualsiasi momento, senza dover necessariamente fornire le opportune spiegazioni. Per Gioia fu la goccia che fece traboccare il vaso. Non avrebbe accettato quest’ennesimo affronto, così si rivolse infine ad avvocati, sindacati e ispettorato del lavoro i quali, all’unanimità, convennero riguardo l’obbligo di risarcimento da parte dall’amministrazione per danni fisici e morali e per mancata regolarità del contratto nei confronti della giovane lavoratrice. Ma la controparte non si mostrò impreparata: infatti, gli avvocati dell’amministratore dichiararono che costui fosse impossibilitato per legge a effettuare il rimborso, poiché risultava nullatenente. Sì, proprio così: un amministratore di un supermercato che ogni giorno ospita centinaia di avventori paganti… nullatenente!

Da allora sono passati ben cinque anni e ad oggi Gioia non ha ancora visto un soldo bucato. Oltre al denaro per la malattia e gli straordinari non retribuiti, tra spese per avvocati e sofferenze di varia natura – come se tutto ciò non bastasse – deve ancora ricevere le ultime due buste paga. Per ora si accontenta di lavorare in nero in un negozio di abbigliamento, quattro ore al giorno per gli stessi soldi che prendeva al supermercato. Niente contratto e, di conseguenza, niente contributi versati. Ma almeno il part-time, questa volta, non è una fregatura.

S&P 1 – Souvenir? No, grazie!

(NOTA: i nomi inseriti in questi racconti sono fittizi. I fatti sono reali)

Tina era una ragazza semplice e senza pretese. L’unica sua preoccupazione era quella di trovarsi un buon lavoro, cosa che sarebbe bastata a farle tornare il sorriso e il buonumore. Un giorno, le sue speranze sembrarono finalmente premiate quando entrò in un negozio di souvenir, dove le fu fatta una proposta di lavoro che non le sembrò affatto male: commessa con 9 ore giornaliere di lavoro e un giorno festivo fisso a settimana, per un totale di 700 € netti mensili. Il titolare, però, precisò da subito che a causa dell’elevata tassazione applicata sul lavoro dipendente, le avrebbe stipulato solo un contratto part-time, e se Tina avesse accettato, dopo il primo anno di lavoro le avrebbe aumentato lo stipendio di 100 €. Tina non badò al compromesso e alla paga troppo esigua in rapporto alle 9 ore di lavoro, perché sapeva che in giro c’era di peggio. Molte delle sue amiche, infatti, si spaccavano la schiena per molto meno, ossia, lavori totalmente in nero o contrattini di stage fasulli. E tutto sommato, quella del titolare della “Beta Sas” non era un’offerta tanto malvagia. Perciò, decise di accettare e, colma d’entusiasmo, cominciò subito il suo nuovo lavoro. Ma qualcosa la turbò fin dal primo momento, quando vide lo sconforto e la stanchezza negli occhi delle sue colleghe, stanchezza che ben presto si impadronì anche di lei, quando scoprì che durante quelle 9 ore consecutive non le veniva concesso di fermarsi nemmeno per andare al bagno, bere un bicchier d’acqua o semplicemente sedersi. L’unica regola in quel dannato posto era sgobbare senza sosta e la sola pausa concessa durante l’intero arco della giornata ammontava a 10 miseri minuti, non un secondo di più. A ciò si aggiungevano i pesanti rimproveri e le offese gratuite che il titolare dell’azienda amava dispensare alle sue dipendenti, il più delle volte senza alcun giustificabile motivo. Così, la povera Tina, piombata in un regime follemente autoritario, si rese conto di essere stata fin troppo ingenua e fiduciosa, e che se avesse continuato a rimanere lì un giorno in più, avrebbe finito per impazzire. Rinunciò a quell’inferno dopo il nono giorno lavorativo e se ne andò con una misera liquidazione di 200 € che, a detta del titolare dell’azienda era molto più di quanto meritasse. Un’esperienza che di sicuro le aveva lasciato un segno indelebile e che la giovane donna si augurò di non dover mai più ripetere nella sua vita. Tina, ragazza semplice e senza pretese se non quella di ritrovare il buonumore e la spensieratezza di un tempo, quel giorno, il suo sorriso l’aveva perso…

…ma non per sempre, ringraziando il cielo. Perché di ricente ha trovato un bellissimo lavoro, che forse non le garantirà chissà quali guadagni, ma di sicuro l’ha resa felice. Oggi Tina fa la “dog sitter“, una sola ora al giorno per 150 € mensili, per cominciare. Ma ogni mattina si alza col sorriso sulle labbra, sospinta dall’affetto che prova per questi fantastici animali e che essi non mancano mai di ricambiarle. Il cane, “vero” amico dell’uomo, che a differenza di tanti truffatori e approfittatori, non tradisce mai, anzi, sa amare incondizionatamente. Cosa può il vile denaro dinanzi a qualcosa di ben più prezioso come l’amore?

 

NOTE FINALI:
Grazie all’amica “Tina” che ha rotto il ghiaccio condividendo con noi la sua testimonianza. Se siete anche voi vittime di sfruttamento sul lavoro, smettetela di aver paura e di subire in silenzio. Fate sentire la vostra voce!

Servi e padroni della Penisola Sorrentina

Volevo aprire questo spazio già un anno fa, quando cominciai a stancarmi dell’atteggiamento a dir poco vergognoso assunto da molti datori di lavoro della nostra Penisola nei confronti dei loro dipendenti. Comportamenti che troppo spesso fanno perno sulle paure degli umili lavoratori, la paura di perdere il posto, di non arrivare a fine mese, di non riuscire a pagare l’affitto o il mutuo, la paura di non poter sfamare la propria famiglia. Paure che alimentano le oscure e ignoranti ambizioni dei datori di lavoro, i quali, consapevoli detentori di un potere immenso, si trasformano in abili e meschini burattinai, sempre pronti a sfruttare il prossimo e a imporre i più subdoli ed egoistici compromessi in grado di favoreggiare nient’altro che il proprio tornaconto. Per questi soggetti non esistono termini come collaborazione o lavoro di squadra. Non esiste la figura del leader, ma solo quella del padrone, il che pone il tutto all’interno di un sistema fortemente gerarchizzato, al cui vertice si trova il capo assoluto, colui al quale tutto è dovuto e che giammai si sognerebbe di riconoscere e valorizzare pregi, meriti e abilità dei propri sottoposti. Al grido di “dovresti essermi grato”, “quella è la porta” e “tanto ne trovo un altro”, questi soggetti sono capaci di intimare e schiavizzare qualunque individuo bisognoso di denaro, imponendogli salari irrisori, orari improponibili, lavori in nero senza versamento di contributi o contratti per periodi estremamente ridotti. A ciò va aggiunta l’umiliazione di essere trattati come zerbini, animali, esseri privi di dignità perché appartenenti al più basso tessuto sociale e pertanto non meritevoli di rispetto alcuno. Senza sapere (o facendo finta di non saperlo) che, pur non essendo ricche materialmente, queste persone possiedono tutte le virtù che mancano ai loro insensibili aguzzini: cuore, mente e abilità. Sì, perché è il loro lavoro a portare avanti le aziende. Sono loro i veri eroi, il vero motore di questa società, perché capaci di trovare la forza di andare avanti, di continuare a combattere, nonostante lo scoraggiamento derivante dal trattamento ricevuto.

Molto spesso si giustifica tale comportamento con la difficoltà di portare avanti l’azienda, soprattutto a causa della pesante pressione fiscale, che costringe a effettuare tagli di ogni sorta a partire dal personale. Il che è assolutamente vero e non sarò certo io a metterlo in dubbio. Ma è altrettanto vero che in molti casi la crisi e i problemi finanziari vengono sfruttati come comoda scusante per continuare indisturbatamente ad approfittarsi degli altri, versando le famose e sempre più diffuse “lacrime di coccodrillo”.

Questa rubrica vuole essere non soltanto una valvola di sfogo per chi ogni giorno subisce ogni sorta di angherie, ma un invito e un tentativo di sensibilizzazione degli animi corrotti di tante persone che, accecate dal dio denaro, non riescono ad aprire gli occhi e non riescono a chiedersi cosa farebbero se si trovassero dall’altra parte, al posto di chi implora aiuto e pietà con un barlume di speranza che ogni giorno si affievolisce sempre di più. L’invito è rivolto anche a questi umili lavoratori, perché dal canto loro possano cominciare a reagire e a far sentire la loro voce contro questo sistema malsano; perché possano smettere di avere paura ed essere forti e compatti, non solo per assicurare un futuro migliore a se stessi, ma soprattutto ai loro figli. Il cambiamento è possibile, ma deve partire da noi; e per noi intendo tutti, non il singolo individuo. Perché è l’unione a fare la differenza, mentre da soli si finisce per essere irrimediabilmente schiacciati ed emarginati. Resistere significa lottare per un obiettivo comune, e solo un’azione collettiva potrà rendere significativa questa lotta. Perciò, siate uniti, siate altruisti, ricordate che non siete soli e non siete gli unici ad avere un problema da risolvere.

IMPORTANTE: Le mie pagine raccoglieranno le testimonianze di coloro che vivono o hanno vissuto esperienze simili, esperienze che verranno condivise con e da tutti quelli che vorranno prenderne visione, seppur nel rispetto della privacy e dell’indentità propria e dei datori di lavoro. Non verranno infatti svelati nomi, luoghi e aziende, i quali saranno resi fittizi, mentre le storie rimarranno reali al 100%.

Ovviamente, con ciò non intendo fare di tutta l’erba un fascio. In Penisola ci sono anche datori di lavoro onesti, che a differenza di quella parte “marcia” della società, si battono ogni giorno in difesa dei loro diritti e di quelli dei loro dipendenti, nonostante le tante difficoltà economiche da fronteggiare, che li mettono in ginocchio e non gli permettono di dormire la notte. A queste persone va sicuramente tutto il nostro rispetto e la nostra considerazione.

Non abbiate paura, ordunque. Siete persone, non cani randagi. Fate valere i vostri diritti. Lo meritate più di ogni altra cosa.