La chiesa dimenticata

Nel cuore dell’Appennino Bolognese, tra un intricato nugolo di rovi e sterpaglie, svetta un antico campanile, come la mano nodosa di un uomo saggio e moribondo che si protende implorando umilmente di non essere ignorato, di non essere dimenticato.

Ho udito la sua richiesta di soccorso mentre passeggiavo per i colli erbosi, e non ho potuto fare a meno di rendermi testimone del suo dolore, affinché altri ne venissero a conoscenza poiché, purtroppo, tutti sembrano aver voltato le spalle a quel luogo ormai da tempo immemore sconsacrato.

Credevo che la chiesa non mi avrebbe reso facile accedere al suo ventre martoriato, eppure, senza troppa difficoltà sono riuscito a individuare un varco tra il fitto muro di vegetazione, un passaggio che, seppur in maniera articolata, mi ha permesso di giungere fino alle muschiose pareti dell’edificio. Il portone sulla facciata principale era reso quasi invisibile dall’incredibile numero di rami che sembravano essersi appositamente intrecciati in quel punto. Ma mi è bastato fare pochi passi verso la parete ovest, per trovare l’ingresso laterale completamente spalancato.

Ed è stato così che la chiesa sconsacrata mi ha dischiuso i suoi segreti.

In religioso silenzio ho varcato la piccola soglia, immergendomi nella persistente sacralità di un luogo che cerca ancora di difendersi con le unghie e con i denti, nonostante i decenni (forse secoli?) di abbandono, nonostante la violenza inaudita che l’uomo è stato capace di perpetrare persino qui, facendo a pezzi tutto quanto si poteva e trafugando qualsiasi oggetto potenzialmente barattabile.

Il dolore di questo luogo solenne trasuda da ogni pietra, da ogni parete che ancora resiste alla sua strenua lotta contro il tempo, mentre le gambe stanche, non più in grado di reggere il peso degli anni, continuano a tremare e a piegarsi inesorabilmente.

Qualche anima pia ha anche tentato di sorreggere il vecchio saggio, installando dei puntelli in ferro, nella flebile speranza che non tutto fosse perduto, ma si è dovuta infine riconoscere l’impotenza e la sconfitta dell’uomo dinanzi alla caducità delle cose terrene.

La chiesa dimenticata mi ha accolto come una madre amorevole e, riponendo piena fiducia in me, mi ha anche sussurrato il suo nome, ma le ho promesso che non lo avrei svelato, e che nessuno le avrebbe più fatto del male. Non più di quanto gliene sia già stato inflitto.

Questa è una storia che merita di essere raccontata, ma solo a chi si dimostra degno di ascoltarla. Pertanto, mi fermerò qui, per il momento, lasciando che siano le immagini a fare il resto.

The Hidden Castle

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Non appena una nostra fonte ci ha parlato di un presunto castello abbandonato, celato nel cuore dell’Appennino Bolognese, abbiamo deciso che quella sarebbe stata la nostra prossima meta.
Rimaneva soltanto un problema: trovarlo. Sì, perché in rete non compariva la benché minima informazione al riguardo e, pur chiedendo notizie più approfondite alla gente del posto, nessuno pareva sapere nulla di quei ruderi. Addirittura, nessuno sembrava averne mai sentito parlare, eccetto la nostra fonte. O magari, non avevano semplicemente voglia di parlarne.
In definitiva, io e il mio team possedevamo pochissimi indizi utili a condurci alla tanto ambita meta. Così, prima di lanciarci alla cieca, abbiamo consultato le mappe satellitari le quali, una volta individuata l’area che ci era stata riferita, ci hanno permesso di restringere il campo, fin quando i nostri occhi si son lasciati catturare da una curiosa struttura isolata in mezzo al verde, su quella che sembrava essere la cima di una collina.

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Non avevamo dubbi: doveva essere quello.
L’entusiasmo era palpabile. L’impazienza pure. Dunque, non ci restava altro che partire alla volta del misterioso castello.

17/02/2019, da qualche parte sull’Appennino Bolognese – Ci incontriamo nel primissimo pomeriggio, fiduciosi che la ricerca si concluderà in breve tempo, culminando in una scoperta sensazionale. Parcheggiamo ai piedi della collina individuata tramite il canale satellitare. Alla nostra sinistra, quello che un tempo doveva essere stato un sentiero, si snoda inerpicandosi su per la collina. Ci rendiamo subito conto che percorrerlo sarebbe impossibile, per via degli alti e robusti rovi che lo infestano. Così, decidiamo di risalire la collina lungo il fianco destro, quello più ripido. Molto più ripido. Ma la sete di avventura è anche questo, non lasciarsi scoraggiare dinanzi alle avversità.

Manca poco per raggiungere la cima. Non si vede ancora nulla, nemmeno un tetto. Ma so che troveremo qualcosa lassù. Allungo il passo distaccandomi dal resto della squadra e, trepidante, percorro le ultime centinaia di metri che mi separano dalla vetta. Ansimando profondamente, giungo infine alla meta quando, esattamente come sperato, una sagoma scura si staglia piccola e invitante all’orizzonte.

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«Ci siamo!» esulto, gridando e incalzando i miei compagni di viaggio. «È proprio qui, davanti a me!»

Il rinnovato entusiasmo permette agli altri di raggiungermi in men che non si dica. Alla fine, lo abbiamo trovato. Abbiamo trovato il “castello nascosto”, quello di cui ben pochi sembrano essere effettivamente a conoscenza. Ed è stato più facile di quanto ci aspettassimo!

Man mano che ci avviciniamo alla struttura, abbiamo l’impressione che la notizia del nostro informatore sia stata leggermente ingigantita. Difatti, quello che era stato segnalato come castello, sembra avere più le fattezze di una casa padronale, seppur di un certo spessore.

Giunti sul posto, ci imbattiamo in tre strutture, diverse per grandezza e funzione. Il primo è un fienile con annessa stalla. Gran parte del tetto appare sfondato e si vedono ancora diverse balle di fieno stipate negli apposito spazi. La stalla, invece, si presenta piuttosto lussuosa, con i suoi archi in muratura, i muretti e le colonne che separano l’una dall’altra le varie postazioni. Gli animali che vi stazionavano, a suo tempo, non dovevano passarsela poi così male.

Dietro al fienile/stalla compare il rudere di una piccola cappella, della quale restano in piedi solo porzioni delle mura esterne. Le parti meglio conservate sono la facciata anteriore e quella posteriore, mentre il tetto è crollato del tutto. Impossibile avvicinarsi e tantomeno entrarci per una visita più approfondita: rovi e sterpaglie alti fino a quattro metri hanno preso completamente possesso della struttura, come a voler ostinatamente proteggere la sacralità del luogo dagli indegni visitatori o, al contrario, servire da monito agli incauti pellegrini, sottolineando che oramai non c’è più niente di sacro in quel luogo maledetto e dimenticato da Dio.

Ma ciò che attira fin da subito la nostra attenzione è l’opera ben più imponente che si erge sulla sinistra: l’abitazione principale, con torre adiacente. L’abbiamo lasciata per ultima, così da potercela gustare al meglio, dedicandole tutta l’attenzione che merita. Di fianco al portone d’ingresso campeggia in bella vista il civico, 168. La porta, con nostra immensa sorpresa e gratitudine, è appena socchiusa. E se non è questo un invito ad entrare…

Gli interni ci lasciano senza fiato. È chiaro che l’opera deve aver subìto diversi rifacimenti e tentativi di recupero, anche in epoca recente. A riprova di ciò, consultiamo una pagina di giornale che giace sul pavimento e, senza far troppo caso alle notizie di cronaca a dir poco raggelanti (sembra fatto apposta!), scopriamo che la data è il 13 gennaio 1994. Quindi, almeno fino agli anni ’90, qualcuno di sicuro occupava quella abitazione, o perlomeno, c’era qualcuno che stava cercando di recuperarla. Ma alla fin fine, come ci siamo spesso ritrovati a scoprire durante le nostre escursioni, i lavori sono stati lasciati in sospeso e l’intero edificio… abbandonato per sempre.

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Chiunque ci avesse abitato, non possiamo fare altro che riesumarne il ricordo dando voce a queste pareti che continuano imperterrite a sfidare il tempo, le intemperie e il totale abbandono. Quale mezzo migliore se non qualche scatto fotografico?

Visitando tutte le stanze al piano terra, una cosa ci colpisce in particolar modo: la presenza dei grossi camini nelle stanze più grandi, tipici delle abitazioni di un tempo, specie se di una certa ampiezza e prestigio. Uno dei camini si mostra dotato di forno a legna, peraltro conservato in perfette condizioni; un forno che – ne siamo certi – ancora oggi sarebbe in grado di sfornare pizze e pagnotte strepitose.

Un rumore sinistro ci distoglie da quella gustosa immagine. Uno di noi pensa subito alla presenza di topi. Ma dobbiamo ricrederci quando ci imbattiamo nell’edera che, avendo penetrato le finestre sfondate, mossa dal venticello si mette d’impegno a graffiare la parete e ciò che resta degli infissi.

Una volta espugnato il piano terra, la scelta è tra dirigerci in cantina o al piano superiore. Optiamo dapprima per la cantina. Adoriamo le cantine, e proprio non ce la facciamo a resistere. Il numero di bottiglie sparse al piano terra è nulla in confronto a quello che troviamo di sotto. Tra botti ciclopiche e casse piene di bottiglie, c’è veramente di tutto. Alcune hanno ancora la targhetta. Ci sono marche tuttora note e altre a noi sconosciute. In qualche bottiglia ristagna del liquido la cui natura, onestamente, preferiamo non approfondire.

Accediamo a una stanza adibita a falegnameria, con le assi ancora adagiate sul tavolo. Quel lato della cantina non è interrato. Dalla finestra filtra una suggestiva e spettrale luce, e nella stanza adiacente le porte si spalancano sull’esterno. Prendiamo l’uscita laterale e ci ritroviamo sul retro della casa, dove si accede a un’altra piccola stalla. Oltre non è possibile andare, poiché tra la parete est e la cappella incontrata al nostro arrivo, la natura selvaggia la fa da padrona. Torniamo dunque alla cantina, e accediamo a una stanza più grande che sembra una sorta di rifugio per uccelli, per via dei resti di alcune gabbiette o casette di legno presumibilmente destinate ai volatili e, in terra, quello che sembra del guano calcificato.

Ci affacciamo esterrefatti su un altro ingresso che si apre ancora più verso il basso. Quanto diavolo si scende?, viene da chiederci, fin quando scopriamo di essere dinanzi a un’enorme ghiacciaia. Il freddo, in effetti, comincia a farsi sentire.

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La ghiacciaia

Ci manca ancora un piano da visitare, così, con la massima cautela e cercando di alleggerire il passo al meglio delle nostre possibilità, ci dirigiamo di sopra. Prima di giungere all’ultimo piano dell’abitazione, rimango di stucco scorgendo un vaso con dentro fiori incredibilmente in buono stato.
Il mio primo pensiero è che quel posto sia più frequentato di quanto pensassimo. Dopodiché comincio a chiedermi se i fiori possano essere finti. Mi rassicuro verificando che l’opzione corretta è la seconda.

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Su questo piano tutto sembra più moderno. Le pareti sono dipinte con colori morbidi e rilassanti. Il corridoio centrale dà accesso a molte stanze, una della quale ci dà il benvenuto con una robusta trave piombata giù da soffitto chissà come e chissà quando, trascinando con sé pietre, mattoni, tegole e calcinacci. Al centro, un salone immenso che sarebbe stato perfetto per serate di gala, ospita un camino e i resti di un divano in pelle.

Resta solo una cosa da fare (o meglio, da NON fare): inerpicarsi su per la scalinata che conduce in cima alla torre. La curiosità è tanta, ma preferiamo lasciar spazio alla ragione. Anche perché le scale sono formate da assi di legno che, vecchie come sono, non ci metterebbero molto a spezzarsi sotto il nostro peso (e se son crollati i robustissimi tetti…).

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Stiamo quasi per andarcene, quando uno dei nostri compagni decide di fare un  tentativo, sacrificandosi per la squadra. Lo lasciamo fare; d’altronde, il suo peso ammonta a circa la metà di quello del sottoscritto, il che è tutto dire. Poggia il primo piede al centro dell’asse, esattamente nel punto in cui viene sostenuta da un altro pezzo di legno, e avanza ponendo la massima attenzione. Gli scricchiolii sono inevitabili, ma non forti al punto da destare troppa preoccupazione. Il nostro eroe si ferma ad ogni modo a metà della rampa; la posizione è più che sufficiente per scattare qualche foto all’ambiente soprastante.

È tutto per oggi. Possiamo dire che il castello nascosto non è più tanto nascosto, ma lo rimarrà finché terremo segreto il suo nome e la sua esatta posizione, così come deve essere e così come siamo intenzionati a fare. Perché esplorare e riportare alla luce è bello, ma preservare e rispettare rimangono in assoluto le regole più importanti. Senza contare le buone norme di sicurezza, che mai e poi mai devono essere sottovalutate.

Ci lasciamo questo luogo magnifico alle spalle, con la promessa di ritornare un giorno, e la speranza di trovarlo ancora così, congelato nel tempo e nello spazio, e con tante emozionanti storie da raccontare.

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Il borgo dimenticato di Chiapporato

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Borgo di Chiapporato, 2 aprile 2017 – Le pessime previsioni meteo rischiavano di farci rimandare una delle più belle scoperte degli ultimi tempi. Per nostra fortuna, le nuvole hanno trattenuto le lacrime il tempo necessario per farci visitare questo incredibile borgo.
Io, il buon CaRfa, e le avventuriere Silvia e Federica, non potevamo assolutamente lasciarci sfuggire questa occasione. Così, sfidando il cielo iracondo, ci siamo messi in marcia.
Superiamo il lago di Suviana in direzione Stagno. Lasciamo la macchina all’imbocco del sentiero che ci condurrà al borgo abbandonato di Chiapporato. L’atmosfera è quella giusta e l’aria è carica di elettricità. Ne approfitto per testare il mio nuovo poncho, che si rivela utile solo a farmi sudare, dal momento che, a parte qualche timida e isolata goccia, dal cielo non giunge alcun segnale. Almeno, l’impermeabile mi conferisce un’aura spettrale, ottima per fare un paio di pose losche, prima di rimetterci in marcia.

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Foto di Fabrizio Carollo (CaRfa)

La nebbia ci preclude l’orizzonte ma, più avanziamo, più ci sembra di intravedere dei tetti affiorare tra la fitta coltre fumosa. Non c’è dubbio: è la nostra meta.
Lo conferma un cartello di legno e, poco più avanti, a fugare qualsivoglia dubbio, un tabellone annuncia a caratteri cubitali la nostra posizione con tanto di mappa e breve didascalia sulla storia di Chiapporato.

Di fianco, l’acqua di un ruscelletto scivola giù passando sotto un ponticello e sgorgando allo stesso modo da un curioso e pittoresco abbeveratoio.

A colpirci di più sono i pali della luce che si snodano lungo l’intero tragitto, segno che il borgo non è stato sempre privo di corrente elettrica come ci è stato raccontato. L’ultimo abitante – o meglio, l’ultima – pare abbia lasciato questa terra solo pochi anni fa.

Il borgo è ormai alle porte e, svoltato l’angolo, dalla cima di una collina vediamo ergersi la prima casa… o quel che ne rimane. Perché, oltre alla facciata, rimasta miracolosamente in piedi, il tetto e i vari piani son ridotti a un cumulo di macerie.

Ma non tutto è perduto. Ci addentriamo nel borgo e troviamo altre abitazioni risparmiate (almeno in parte) dal tempo e dalle intemperie. Questa, però, non ci sembra una motivazione sufficiente per inoltrarci nelle loro oscure e pericolanti viscere. La stabilità è compromessa, e non possiamo fare altro che scattare qualche foto dall’uscio. Gli interni sono pieni di oggetti di uso quotidiano, sparpagliati ovunque alla rinfusa, come se fosse passato un violento uragano.

Giungiamo nel cuore del borgo, a un crocevia che ci fa sgranare gli occhi su una serie di abitazioni davvero suggestive. Una di queste case è stata senza dubbio dimora dell’ultima abitante del borgo. Lo provano l’ottimo stato, nonché la cassetta della posta di fianco al portone d’ingresso, rigorosamente chiuso a chiave. Ai lati, due vasi decorativi in pietra a forma di cigno, che un tempo dovevano esser stati un bello spettacolo floreale, oggi ospitano erbacce e sterpaglie.

Appurato di non poter accedere all’abitazione, avanziamo per il bel viale costeggiato dai ruderi delle abitazioni e sormontato da un caratteristico arco naturale, fatto di robusti rampicanti, gli stessi che ricoprono le pietre vive delle abitazioni, monito di madre natura che, un passo alla volta, cerca di riprendersi ciò che l’uomo le aveva sottratto.

La prossima casa ci attira a sé aprendoci le porte. Il piano terra, dalla pavimentazione in pietra, appare piuttosto stabile, mentre le assi di legno del soffitto ci sconsigliano di avventurarci al piano superiore (anche se, almeno una fugace sbirciatina dalla tromba delle scale è d’obbligo). Anche qui, è come se una forza misteriosa avesse messo a soqquadro ogni cosa, costringendo gli abitanti a una fuga repentina, lasciandosi tutto alle spalle, per sempre.

Vasellame e pentolame di vario genere adornano ogni dove, dai tavoli ai mobili, fino al pavimento. Un senso di sporco e di vecchiume ricopre ogni cosa, e in alcuni piatti sembra addirittura di vedere resti ammuffiti di indefinibili pietanze.

Io e il CaRfa ci scambiamo diverse occhiate. Il posto ci ispira non poco. I nostri ricordi tornano a una pellicola cinematografica degli anni 80, capolavoro del genere horror: La Casa 2 di Sam Raimi. E, alla fine, come per espletare un bisogno fisiologico impellente, decidiamo di omaggiare (se di omaggio si possa parlare) la celebre fuga di Ash, con una ripresa improvvisata dei nostri più che modesti mezzi.

Evil Dead from Chiapporato from Fabrizio Carollo on Vimeo.

Superato lo stato allucinogeno da cinema horror unito all’effetto stupefacente da borgo fantasma, ritorniamo sui nostri passi, dirigendoci all’incrocio superato poco prima. Sopra i nostri nasi compaiono altre costruzioni. Prima del sentiero che si inerpica su per la collina, un invitante forno a legna ci mostra gli avanzi delle sue braci. Le ceneri conservate al suo interno ci fanno presumere che non sia trascorso così tanto dall’ultimo utilizzo.

Risaliamo il sentiero, fino a ritrovarci dinanzi alla chiesa, l’edificio meglio conservato del borgo che, secondo alcune fonti, ha subito fasi di restauro nell’intento di riportare alla vita il sito, evitandone il totale spopolamento. L’obiettivo, a quanto vediamo, non è stato raggiunto.

Ci piacerebbe visitare l’edificio sacro dall’interno, ma le porte sono chiuse, e non vi è finestra sufficientemente bassa da permetterci di dare un’occhiata. Di lato, però, è impossibile non notare un cancelletto in ferro battuto che dà sul vecchio cimitero. Lo scenario è suggestivo a dir poco. Dall’erba spuntano croci e lapidi. Su un paio di queste ultime, ancora resistono foto sbiadite in bianco e nero e i nomi appena leggibili dei trapassati. La curiosità è tanta, ma una sensazione di disagio ci attorciglia le budella, invitandoci a lasciare questo luogo di riposo eterno (sconsacrato o meno che sia). Non vogliamo in nessun modo mancare di rispetto ai morti che ivi dimorano, perciò decidiamo di non trattenerci oltre.

Giriamo intorno alla chiesa e, sul retro, ci imbattiamo in un ceppo cavo davvero curioso. Una delle ipotesi è che fosse adibito a presepe durante le festività natalizie. A suo tempo doveva esser stato un vero spettacolo, mentre ora, si staglia in mezzo al prato come la carcassa rinsecchita di un’orrida e inquietante creatura.

Sostiamo per un tempo indefinito sulle scale della chiesa, tristemente consapevoli di essere giunti al termine del nostro cammino. È qui che optiamo per un ultimo selfie, posizionando la fotocamera su uno sgabello adiacente alle ceneri di un fuoco da bivacco.

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Foto di Fabrizio Carollo (CaRfa)

Da quassù la vista è incantevole. Sembra quasi di vederli quei fedeli che, ogni fine settimana, uscivano dalle proprie case, risalivano il sentiero e si radunavano in chiesa per la funzione domenicale.

Un luogo che pullulava di vita. Una vita fatta di luci, colori, sorrisi e speranza, ormai spenti e sostituiti da un tetro silenzio e una sinistra immobilità, interrotti solo dall’inesorabile caducità di ciò che non potrà mai essere eterno.

Se volete saperne di più, vi rimando al bellissimo articolo di Wanda.

A seguire, altre foto.

Povolo e Castelnuovo: grande ritorno in appennino

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Mi mancavano davvero le escursioni sull’appennino. E in che modo festeggiare con l’amico Gianluca il mio ritorno, se non con una bella passeggiata tra questi maestosi e verdeggianti paesaggi?
Appuntamento alle ore 14.00. Facciamo un breve tratto in auto, in direzione Castelnuovo, per poi parcheggiare in un piccolo spiazzo e proseguire a piedi. Alla prima segnaletica che ci indica le direzioni per i vari paesini circostanti, tagliamo a destra per andare a Povolo. Dopo altri 3,5 km, giungiamo in questo borghetto incantevole, che sembra spuntato direttamente dalla più magica delle favole. Un giardino dell’eden ci accoglie con un portale fiorito che dà su un sentiero in pietra, a sua volta costeggiato da alberi, fiori e cespugli molto ben curati.
Accolti dal rilassante suono dello scorrere dell’acqua, troviamo un canaletto artificiale, sormontato da un ponticello, su cui affacciano diverse casupole in pietra, molto pittoresche. Sulla sinistra, un abitante del posto cura il suo orticello. Ci fermiamo a parlare con lui e ci racconta di quanto sia dura occuparsi tutti i giorni delle colture e tenerle a bada, specie se costantemente minacciate dalle intemperie e dagli animali selvatici che non mancano mai, tra cui lupi, cinghiali, daini e roditori.
Sullo sfondo, un mulino convoglia le acque originate dal fiume che scorre pochi metri più a sinistra, per poi distribuirle al canale sottostante. Subito dietro la costruzione, recuperata di recente, un albero maestoso fa da copertura a una bella altalena, una panchina, un tavolino e una suggestiva fontanina, con acqua freschissima che zampilla da una pietra ricoperta di muschio.
Restiamo per un po’ a godere di quei profumi e del silenzio surreale di quel luogo incantevole, un angolino di pace, fuori dallo spazio e dal tempo. Un borgo che ci ha subito conquistati e che lasciamo a malincuore, per riprendere il nostro cammino.
Torniamo al bivio e questa volta continuiamo a salire, fino a raggiungere il punto più alto di Castelnuovo, sormontato da una bellissima chiesa. Facciamo un giro intorno alla struttura e ammiriamo il panorama circostante, con le sue cime e le sue forme ondulate e sinuose. Purtroppo la chiesa è chiusa. Ci sarebbe piaciuto vederla dall’interno e magari guardare il paesaggio dall’alto del suo campanile. Motivo più che valido per tornarci.
Il tramonto incombe e ci apprestiamo a riscendere, lasciandoci alle spalle quei graziosi paesini. Cinque e passa ore sono davvero volate, così come i tanti chilometri percorsi che, distratti com’eravamo dalle bellezze offerte dalla natura, non abbiamo affatto sentito.

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Verso Montovolo

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Montovolo, 21/06/2016 – Oggi, per fortuna, non mi sono perso, perché ho potuto contare sull’impeccabile guida dell’amico e collega Gianluca, esperto conoscitore dell’appennino bolognese, che mi ha condotto su Montovolo, una montagna alta 962 metri.

Superato in auto il centro di Riola, parcheggiamo e ci incamminiamo verso il pittoresco borgo di Scola, lasciandoci alle spalle la fiabesca Rocchetta Mattei. Ci riportiamo dunque sulla strada e la seguiamo incontrando nuovi borghi, perle incastonate nel meraviglioso appennino e che hanno conservato alla perfezione il loro antico fascino, come Vimignano, Cavallino e, per finire, Campolo. Raggiungiamo infine Montovolo, dove sorge il Santuario della Beata Vergine della Consolazione. Come ci aspettavamo, è chiuso, poiché viene aperto soltanto nel fine settimana e in occasioni particolari.
Spostandoci poco più su, incontriamo l’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria. Impossibile non notare gli innumerevoli fori di mortaio e mitragliatrice che ricoprono l’intera parete sud, segno degli scontri tra tedeschi e americani che videro coinvolta buona parte dell’appennino nei duri anni del Secondo Conflitto Mondiale.
Raggiungiamo il punto più alto, noto come il Balzo di S. Caterina, dal quale si gode di un panorama mozzafiato, che apre sull’immensa valle del Reno, da Porretta a Casalecchio, e spazia fino al Corno alle Scale, al Cimone e alle cime dell’appennino pratese. Quassù viene ricordata anche una dolorosissima tragedia, ovvero, la strage dell’Istituto Salvemini del 1990, nella quale un aereo militare precipitò sulla scuola mietendo 12 vittime brutalmente segnate dal destino – tutti studenti – e ferendo altre 88 persone tra studenti e insegnanti.
Dedichiamo una preghiera a queste povere anime, dopodiché ritorniamo sui nostri passi.

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