Nel paese abbandonato di Caselle

Nei dintorni di Fanano, pittoresco comune del modenese, dopo una breve passeggiata lungo il sentiero 407 del CAI, è possibile imbattersi in una corposa serie di ruderi, facenti parte dell’antica borgata denominata “Le Caselle”.

Le costruzioni sono numerose, ampie e spaziose, segno che un tempo questo paese doveva contare un buon numero di abitanti.

Mentre siedo a un tavolino in pietra, figurandomi il viavai di quelle persone e provando a immaginare il loro vociare, provo un senso di gioia misto ad amarezza e malinconia. Questo posto doveva essere stato davvero magnifico, a suo tempo.

Ma quale fu la causa del suo declino?

Nel 1953, gli abitanti furono costretti ad evacuare in fretta e furia, a causa del susseguirsi di frane e smottamenti, che cominciavano a compromettere seriamente la sicurezza e la vivibilità del posto, come testimonia questo importante e interessante documento dell’epoca, a cura dell’Istituto Luce:

“Caselle è condannata” sentenzia infine la voce fuori campo, senza tanti giri di parole. E gli effetti del suo repentino abbandono sono ben visibili tra i tetti e i piani sfondati, e le macerie di quelle abitazioni che non hanno potuto fare altro se non soccombere alle severe leggi della natura. Quella natura che, ancora una volta, ha reclamato i suoi spazi confermando la sua indiscussa superiorità dinanzi all’effimera specie umana.

Se doveste trovarvi nei pressi di Fanano, non perdete l’occasione di fare un salto nel paese di Caselle. Merita assolutamente una visita!

La caserma distrutta

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Come titolo avrei preferito “La caserma abbandonata” ma, distrutta rende meglio l’idea. D’altronde, le immagini parlano da sole.

Ci hanno segnalato questo posto, facendo riferimento a una ex caserma della finanza. Considerato che ci son volute ben tre ore di giri in mezzo al bosco per individuarla (e, vi giuro, per la prima volta eravamo sul punto di gettare la spugna!), trovavamo difficile immaginare che la finanza avesse potuto presidiare un luogo talmente distante dalla civiltà. Magari, potrebbe essersi trattato di un rifugio o una caserma della forestale.
Fatto sta che, chiunque avesse occupato la base, doveva stare un bel po’ sulle scatole a qualcuno, visto l’accanimento con cui le costruzioni sono state ridotte in macerie.

Dopo aver scattato qualche foto, abbiamo deciso di alzare i tacchi e andarcene. Non tanto per il senso di disagio che ci trasmetteva quel luogo sperduto e dimenticato, ma soprattutto perché, come capirete, vi era rimasto ben poco da vedere e da esplorare.

Ci siamo lasciati alle spalle quanto rimaneva di quella casa e, per un istante, le nostre menti si sono sincronizzate, viaggiando indietro nel tempo fino al 1981, quando il regista San Raimi mostrava al mondo un’altra “casa” in mezzo al bosco. Quella celeberrima quanto mostruosa casa che rimarrà per sempre scolpita nei nostri ricordi.

The Hidden Castle

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Non appena una nostra fonte ci ha parlato di un presunto castello abbandonato, celato nel cuore dell’Appennino Bolognese, abbiamo deciso che quella sarebbe stata la nostra prossima meta.
Rimaneva soltanto un problema: trovarlo. Sì, perché in rete non compariva la benché minima informazione al riguardo e, pur chiedendo notizie più approfondite alla gente del posto, nessuno pareva sapere nulla di quei ruderi. Addirittura, nessuno sembrava averne mai sentito parlare, eccetto la nostra fonte. O magari, non avevano semplicemente voglia di parlarne.
In definitiva, io e il mio team possedevamo pochissimi indizi utili a condurci alla tanto ambita meta. Così, prima di lanciarci alla cieca, abbiamo consultato le mappe satellitari le quali, una volta individuata l’area che ci era stata riferita, ci hanno permesso di restringere il campo, fin quando i nostri occhi si son lasciati catturare da una curiosa struttura isolata in mezzo al verde, su quella che sembrava essere la cima di una collina.

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Non avevamo dubbi: doveva essere quello.
L’entusiasmo era palpabile. L’impazienza pure. Dunque, non ci restava altro che partire alla volta del misterioso castello.

17/02/2019, da qualche parte sull’Appennino Bolognese – Ci incontriamo nel primissimo pomeriggio, fiduciosi che la ricerca si concluderà in breve tempo, culminando in una scoperta sensazionale. Parcheggiamo ai piedi della collina individuata tramite il canale satellitare. Alla nostra sinistra, quello che un tempo doveva essere stato un sentiero, si snoda inerpicandosi su per la collina. Ci rendiamo subito conto che percorrerlo sarebbe impossibile, per via degli alti e robusti rovi che lo infestano. Così, decidiamo di risalire la collina lungo il fianco destro, quello più ripido. Molto più ripido. Ma la sete di avventura è anche questo, non lasciarsi scoraggiare dinanzi alle avversità.

Manca poco per raggiungere la cima. Non si vede ancora nulla, nemmeno un tetto. Ma so che troveremo qualcosa lassù. Allungo il passo distaccandomi dal resto della squadra e, trepidante, percorro le ultime centinaia di metri che mi separano dalla vetta. Ansimando profondamente, giungo infine alla meta quando, esattamente come sperato, una sagoma scura si staglia piccola e invitante all’orizzonte.

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«Ci siamo!» esulto, gridando e incalzando i miei compagni di viaggio. «È proprio qui, davanti a me!»

Il rinnovato entusiasmo permette agli altri di raggiungermi in men che non si dica. Alla fine, lo abbiamo trovato. Abbiamo trovato il “castello nascosto”, quello di cui ben pochi sembrano essere effettivamente a conoscenza. Ed è stato più facile di quanto ci aspettassimo!

Man mano che ci avviciniamo alla struttura, abbiamo l’impressione che la notizia del nostro informatore sia stata leggermente ingigantita. Difatti, quello che era stato segnalato come castello, sembra avere più le fattezze di una casa padronale, seppur di un certo spessore.

Giunti sul posto, ci imbattiamo in tre strutture, diverse per grandezza e funzione. Il primo è un fienile con annessa stalla. Gran parte del tetto appare sfondato e si vedono ancora diverse balle di fieno stipate negli apposito spazi. La stalla, invece, si presenta piuttosto lussuosa, con i suoi archi in muratura, i muretti e le colonne che separano l’una dall’altra le varie postazioni. Gli animali che vi stazionavano, a suo tempo, non dovevano passarsela poi così male.

Dietro al fienile/stalla compare il rudere di una piccola cappella, della quale restano in piedi solo porzioni delle mura esterne. Le parti meglio conservate sono la facciata anteriore e quella posteriore, mentre il tetto è crollato del tutto. Impossibile avvicinarsi e tantomeno entrarci per una visita più approfondita: rovi e sterpaglie alti fino a quattro metri hanno preso completamente possesso della struttura, come a voler ostinatamente proteggere la sacralità del luogo dagli indegni visitatori o, al contrario, servire da monito agli incauti pellegrini, sottolineando che oramai non c’è più niente di sacro in quel luogo maledetto e dimenticato da Dio.

Ma ciò che attira fin da subito la nostra attenzione è l’opera ben più imponente che si erge sulla sinistra: l’abitazione principale, con torre adiacente. L’abbiamo lasciata per ultima, così da potercela gustare al meglio, dedicandole tutta l’attenzione che merita. Di fianco al portone d’ingresso campeggia in bella vista il civico, 168. La porta, con nostra immensa sorpresa e gratitudine, è appena socchiusa. E se non è questo un invito ad entrare…

Gli interni ci lasciano senza fiato. È chiaro che l’opera deve aver subìto diversi rifacimenti e tentativi di recupero, anche in epoca recente. A riprova di ciò, consultiamo una pagina di giornale che giace sul pavimento e, senza far troppo caso alle notizie di cronaca a dir poco raggelanti (sembra fatto apposta!), scopriamo che la data è il 13 gennaio 1994. Quindi, almeno fino agli anni ’90, qualcuno di sicuro occupava quella abitazione, o perlomeno, c’era qualcuno che stava cercando di recuperarla. Ma alla fin fine, come ci siamo spesso ritrovati a scoprire durante le nostre escursioni, i lavori sono stati lasciati in sospeso e l’intero edificio… abbandonato per sempre.

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Chiunque ci avesse abitato, non possiamo fare altro che riesumarne il ricordo dando voce a queste pareti che continuano imperterrite a sfidare il tempo, le intemperie e il totale abbandono. Quale mezzo migliore se non qualche scatto fotografico?

Visitando tutte le stanze al piano terra, una cosa ci colpisce in particolar modo: la presenza dei grossi camini nelle stanze più grandi, tipici delle abitazioni di un tempo, specie se di una certa ampiezza e prestigio. Uno dei camini si mostra dotato di forno a legna, peraltro conservato in perfette condizioni; un forno che – ne siamo certi – ancora oggi sarebbe in grado di sfornare pizze e pagnotte strepitose.

Un rumore sinistro ci distoglie da quella gustosa immagine. Uno di noi pensa subito alla presenza di topi. Ma dobbiamo ricrederci quando ci imbattiamo nell’edera che, avendo penetrato le finestre sfondate, mossa dal venticello si mette d’impegno a graffiare la parete e ciò che resta degli infissi.

Una volta espugnato il piano terra, la scelta è tra dirigerci in cantina o al piano superiore. Optiamo dapprima per la cantina. Adoriamo le cantine, e proprio non ce la facciamo a resistere. Il numero di bottiglie sparse al piano terra è nulla in confronto a quello che troviamo di sotto. Tra botti ciclopiche e casse piene di bottiglie, c’è veramente di tutto. Alcune hanno ancora la targhetta. Ci sono marche tuttora note e altre a noi sconosciute. In qualche bottiglia ristagna del liquido la cui natura, onestamente, preferiamo non approfondire.

Accediamo a una stanza adibita a falegnameria, con le assi ancora adagiate sul tavolo. Quel lato della cantina non è interrato. Dalla finestra filtra una suggestiva e spettrale luce, e nella stanza adiacente le porte si spalancano sull’esterno. Prendiamo l’uscita laterale e ci ritroviamo sul retro della casa, dove si accede a un’altra piccola stalla. Oltre non è possibile andare, poiché tra la parete est e la cappella incontrata al nostro arrivo, la natura selvaggia la fa da padrona. Torniamo dunque alla cantina, e accediamo a una stanza più grande che sembra una sorta di rifugio per uccelli, per via dei resti di alcune gabbiette o casette di legno presumibilmente destinate ai volatili e, in terra, quello che sembra del guano calcificato.

Ci affacciamo esterrefatti su un altro ingresso che si apre ancora più verso il basso. Quanto diavolo si scende?, viene da chiederci, fin quando scopriamo di essere dinanzi a un’enorme ghiacciaia. Il freddo, in effetti, comincia a farsi sentire.

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La ghiacciaia

Ci manca ancora un piano da visitare, così, con la massima cautela e cercando di alleggerire il passo al meglio delle nostre possibilità, ci dirigiamo di sopra. Prima di giungere all’ultimo piano dell’abitazione, rimango di stucco scorgendo un vaso con dentro fiori incredibilmente in buono stato.
Il mio primo pensiero è che quel posto sia più frequentato di quanto pensassimo. Dopodiché comincio a chiedermi se i fiori possano essere finti. Mi rassicuro verificando che l’opzione corretta è la seconda.

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Su questo piano tutto sembra più moderno. Le pareti sono dipinte con colori morbidi e rilassanti. Il corridoio centrale dà accesso a molte stanze, una della quale ci dà il benvenuto con una robusta trave piombata giù da soffitto chissà come e chissà quando, trascinando con sé pietre, mattoni, tegole e calcinacci. Al centro, un salone immenso che sarebbe stato perfetto per serate di gala, ospita un camino e i resti di un divano in pelle.

Resta solo una cosa da fare (o meglio, da NON fare): inerpicarsi su per la scalinata che conduce in cima alla torre. La curiosità è tanta, ma preferiamo lasciar spazio alla ragione. Anche perché le scale sono formate da assi di legno che, vecchie come sono, non ci metterebbero molto a spezzarsi sotto il nostro peso (e se son crollati i robustissimi tetti…).

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Stiamo quasi per andarcene, quando uno dei nostri compagni decide di fare un  tentativo, sacrificandosi per la squadra. Lo lasciamo fare; d’altronde, il suo peso ammonta a circa la metà di quello del sottoscritto, il che è tutto dire. Poggia il primo piede al centro dell’asse, esattamente nel punto in cui viene sostenuta da un altro pezzo di legno, e avanza ponendo la massima attenzione. Gli scricchiolii sono inevitabili, ma non forti al punto da destare troppa preoccupazione. Il nostro eroe si ferma ad ogni modo a metà della rampa; la posizione è più che sufficiente per scattare qualche foto all’ambiente soprastante.

È tutto per oggi. Possiamo dire che il castello nascosto non è più tanto nascosto, ma lo rimarrà finché terremo segreto il suo nome e la sua esatta posizione, così come deve essere e così come siamo intenzionati a fare. Perché esplorare e riportare alla luce è bello, ma preservare e rispettare rimangono in assoluto le regole più importanti. Senza contare le buone norme di sicurezza, che mai e poi mai devono essere sottovalutate.

Ci lasciamo questo luogo magnifico alle spalle, con la promessa di ritornare un giorno, e la speranza di trovarlo ancora così, congelato nel tempo e nello spazio, e con tante emozionanti storie da raccontare.

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