Nel paese abbandonato di Caselle

Nei dintorni di Fanano, pittoresco comune del modenese, dopo una breve passeggiata lungo il sentiero 407 del CAI, è possibile imbattersi in una corposa serie di ruderi, facenti parte dell’antica borgata denominata “Le Caselle”.

Le costruzioni sono numerose, ampie e spaziose, segno che un tempo questo paese doveva contare un buon numero di abitanti.

Mentre siedo a un tavolino in pietra, figurandomi il viavai di quelle persone e provando a immaginare il loro vociare, provo un senso di gioia misto ad amarezza e malinconia. Questo posto doveva essere stato davvero magnifico, a suo tempo.

Ma quale fu la causa del suo declino?

Nel 1953, gli abitanti furono costretti ad evacuare in fretta e furia, a causa del susseguirsi di frane e smottamenti, che cominciavano a compromettere seriamente la sicurezza e la vivibilità del posto, come testimonia questo importante e interessante documento dell’epoca, a cura dell’Istituto Luce:

“Caselle è condannata” sentenzia infine la voce fuori campo, senza tanti giri di parole. E gli effetti del suo repentino abbandono sono ben visibili tra i tetti e i piani sfondati, e le macerie di quelle abitazioni che non hanno potuto fare altro se non soccombere alle severe leggi della natura. Quella natura che, ancora una volta, ha reclamato i suoi spazi confermando la sua indiscussa superiorità dinanzi all’effimera specie umana.

Se doveste trovarvi nei pressi di Fanano, non perdete l’occasione di fare un salto nel paese di Caselle. Merita assolutamente una visita!

Il covo dei banditi (o meglio, “ex” covo)

Nei meandri più oscuri di Alto Reno Terme sorgono i resti di un borgo abbandonato da circa un secolo. Si narra che tali ruderi fossero stati covo e dimora di banditi senza scrupoli. Ma queste sono soltanto dicerie, storie prive di fondamento, anche se, in certe storie, molto spesso c’è un fondo di verità.

Forse, mi sono lasciato troppo suggestionare da quelle storie, al punto che, man mano che mi avvicinavo al villaggio fantasma, mi sentivo sempre più a disagio, allertato dalla costante quanto ridicola sensazione di essere osservato.

Ho deciso di farvi visita alle prime luci del mattino. Di certo, non il momento migliore della giornata per fare un salto in un borgo su cui aleggiano leggende per nulla rassicuranti.

Trovarlo è stato più semplice di quanto pensassi. Mi è bastato seguire un sentiero che si addentrava nel bosco, per ritrovarmi poco più avanti alle porte della città morta, ove torreggiavano le sagome di due case in pietra che, con aria austera e minacciosa, mi invitavano a farmi avanti.

Varcata quella soglia, mi è sembrato di entrare in un’altra dimensione. L’atmosfera era completamente diversa, quasi opprimente, e l’aria trasportava un olezzo sgradevole di natura organica, assecondato dallo sciamare impazzito di mosche e altri insetti, in numero talmente consistente che mi era quasi impossibile scattare una foto senza immortalarne qualcuno.

Il borgo fantasma vantava un buon numero di edifici, la maggior parte dei quali si erano infine arresi allo scorrere del tempo e alla forza di gravità, riducendosi a involucri vuoti o a una serie informe di pietre impilate e imprigionate dai rampicanti. Altre costruzioni, invece, si mostravano ben più ostinate, mettendocela tutta per restare in piedi. Ma la verità è che, ognuna di esse appariva come un pallido e scarno cadavere, un mucchio di ossa lacerate e sfondate che lanciano il proprio grido disperato al cielo, incapaci di accettare una volta per tutte il loro definitivo trapasso.

Riguardo la storia di questo luogo, non sembrano esistere documenti ufficiali e, se esistono, il sottoscritto non ne è a conoscenza. Ma, mentre vagavo per i viottoli del borgo, un pensiero mi ossessionava, e cioè: se questa storia è finita nel dimenticatoio, forse è proprio perché in tanti volevano che andasse dimenticata.

Eppure, sarebbe stato interessante trovare almeno un indizio che mi aiutasse a risalire a qualcosa. L’unica prova tangibile in cui sono incappato è stata questa scritta incisa su una pietra di una casa, datata “1899“.

Impossibile, tuttavia, per il qui presente, decifrare tale sigla, senza possedere informazioni o altro materiale con cui confrontarla.

Niente, quella sensazione negativa non voleva proprio saperne di lasciarmi in pace. Ogni minimo fruscio tra i cespugli mi faceva sobbalzare e, come se non bastasse, le mosche stavano diventando particolarmente insistenti, quasi che si fossero stancate della carne morta… Un momento… carne “morta”? Quale carne morta?? È ufficiale, cominciavo a sbarellare. Per tal motivo, avrei fatto meglio ad uscire da lì il più in fretta possibile.

Ho deciso di velocizzare la visita, risalendo un’antica gradinata che passava in mezzo a due edifici. Attraverso le porte divelte e le sbarre alle finestre (sbarre? Come in una prigione?) si potevano vedere le macerie dei tetti e dei piani superiori crollati, alcune mensole nella parete e i residui di qualche parete intonacata con sopra i colori sbiaditi delle pitture.

Uno degli edifici nella parte alta del borgo presentava buona parte del tetto incredibilmente integra, con le tegole incurvate ma ancora perfettamente incastrate l’una nell’altra. La mia ipotesi era che quel nucleo abitativo doveva essere stato occupato più a lungo e, di conseguenza, definitivamente abbandonato in tempi più recenti rispetto alle altre case che sembravano oltremodo antiche e malridotte.

Avevo visto abbastanza, ed era giunto il momento di lasciare quel luogo maledetto, divenuto teatro delle mie insensate paranoie. In sostanza, sapevo di non avere niente da temere. Ho visitato luoghi di gran lunga più lugubri e raccapriccianti e, di sicuro, non poteva esserci più alcun bandito o qualsivoglia persona ad abitare quelle mura. Nessuna persona “viva”, perlomeno (ed eccolo che ci ricasca!).

Anche se, a suo tempo, si fosse realmente trattato di un covo di banditi, era ormai certo che nessun bandito avrebbe piantato le tende in quel posto. Che a mettere radici, ci stava pensando già Madre Natura, con il suo rigoglioso e verdeggiante abbraccio. Chi mai, del resto, sarebbe talmente folle da andare ad abitare in mezzo a quelle rovine?

Tornando sui miei passi, mi sono imbattuto in qualcosa che prima non avevo notato: dal tetto diroccato di una casa sbucavano arbusti stracarichi di more. La prova definitiva che non c’era nessuno a osservarmi dai cespugli circostanti (nessuno di viv… a ridaje!). D’altronde, quale bandito si sognerebbe di lasciarsi scappare un così ghiotto bottino? Preso atto di ciò, i battiti del cuore sono finalmente rallentati e, riacquistata la dovuta calma, mi sono soffermato senza fretta a raccogliere un pugno di quei meravigliosi frutti selvatici, rendendo grazie alla natura per il generoso regalo di addio.

Dopo, non mi è restato altro da fare se non tornarmene tranquillo sui miei passi, ripercorrendo il susseguirsi di emozioni provate nel corso di questa fantastica avventura. Sono sicuro che questo posto abbia una storia interessante da raccontare, magari anche meno tragica e sanguinaria di quanto avessi immaginato. Forse, non sono stato abbastanza attento e, magari, sono stato un cattivo ascoltatore. Ma non sarò l’ultimo uomo ad aver solcato queste terre. E forse un giorno giungerà colui che si mostrerà degno di ascoltare la storia che i banditi del covo fantasma avranno premura di raccontagli.

Borgo di confine

Esiste un borgo abbandonato in cima a un colle, ai piedi del quale scorre un fiume che segna il confine tra la Toscana e l’Emilia Romagna. Un luogo che definire suggestivo sarebbe davvero riduttivo.

Percorriamo la statale di confine, fino a giungere in un anonimo paesino. Da lì riusciamo già a scorgere una parte di ruderi, che si ergono su una collina poco distante, parzialmente celati e ricoperti dalla vegetazione.

Parcheggiamo e seguiamo le indicazioni per le cascate, riportate a mano su un cartoncino. In breve tempo, raggiungiamo un ponticello, dal quale possiamo ammirare il lento scorrere del fiume e la cascatina che vi si immerge, calandosi da una rupe.

Attraversato il ponte, seguiamo ciò che rimane di una antica strada, che si inerpica su per la collina. A un certo punto, ci rendiamo conto di esserci allontanati troppo dalla posizione individuata inizialmente. Di sicuro, siamo ben oltre il nostro obiettivo, non potendo contare su alcun tipo di indicazione, segno che il borgo non sembra avere molta voglia di essere trovato. Poi, guardando alle nostre spalle, notiamo emergere dalla vegetazione una torretta coperta di edera. L’avevamo già vista appena giunti in paese e parcheggiata l’auto.

Torniamo dunque sui nostri passi e, orientandoci in base al nuovo punto di riferimento, imbocchiamo un sentiero nel bosco che, siamo certi, ci condurrà alla nostra meta. Purtroppo, però, il sentiero, abbandonato da tempo immemore, diviene impraticabile, invaso com’è dalla vegetazione che si infittisce sempre più. Dobbiamo farcene una ragione: da quel lato non si può accedere, anche se sappiamo di essere vicini. Non ci resta che riprendere la strada maestra e cercare di aggirare l’ostacolo, risalendo da un versante maggiormente spoglio.

Pochi passi e troviamo un nuovo sentiero, piuttosto ripido ma ben più praticabile. Giunti in cima alla collina, un altro sentiero si apre dinanzi a noi. Guardando a destra, notiamo alcune conformazioni rocciose che sembrano essere state modellate dalla mano dell’uomo, fino a formare una serie di gradoni. Non può essere un caso: la direzione è quella giusta. Un’altra manciata di metri e arriva la conferma definitiva, con il primo rudere di un’abitazione che fa capolino tra i cespugli. L’emozione è indescrivibile.

Superata la prima abitazione, ci ritroviamo in quella che doveva essere la piazzatta principale, circondata dalle pareti superstiti di altre costruzioni in pietra. Proseguendo, ci inoltriamo tra i viottoli del borghetto, respirando quella magica atmosfera, e immaginandolo vivo come era stato un tempo. Gli accessi alle abitazioni, giustamente, sono stati recintati. Tutto è estremamente pericolante e, probabilmente, tra non molto qualche altra parete perderà la sua battaglia contro il tempo. A peggiorare la situazione, purtroppo, ha contribuito l’irrispettosa invadenza dell’uomo, ravvisabile dagli ignobili murales che si palesano fin troppo spesso a imbrattare le mura.

Ma una fulgida visione ci fa subito dimenticare ciò che ci ha appena fatto storcere il naso: siamo davanti ai gradini della chiesa, e qui il silenzio è d’obbligo. Il luogo sacro, nonostante tutto, sa ancora come difendersi, mostrandosi in tutta la sua fiera e rugosa bellezza. Un tempo doveva essere stata un vero gioiello per la sua piccola comunità. Impossibile non figurarsi gli abitanti del borgo percorrere la modesta navata, e udirne lo scalpiccio sulla pavimentazione.

Solo una volta distolto lo sguardo dall’edificio religioso, notiamo, appena di fianco, un paio di lavatoi in pietra. Anche lì, non possiamo non vedere con gli occhi della mente le lavandaie sfilare e farsi il segno della croce, sia prima di mettersi all’opera che a lavoro ultimato, pronte a rincasare con il loro cesto di panni cinto in vita o portato in equilibrio sulla testa.

Continuiamo a muoverci per i vicoli, per scoprire che il complesso ecclesiastico, con i suoi ulteriori locali sul retro, è molto più ampio di quanto ci eravamo aspettati, culminando nel punto più alto con la torretta ricoperta di edera che poco prima ci aveva reindirizzati sulla retta via.

Oltre questo punto, il tragitto si perde nella vegetazione, sicuramente ricollegandosi al sentiero che si era rivelato impercorribile dal lato opposto.

Felici di aver fatto la sua conoscenza, ci lasciamo alle spalle questo pezzo di storia, ennesima nobile quanto malinconica testimonianza di un paese morente.

Non rivelerò il nome del borgo, tantomeno quello del fiume e la loro esatta posizione. Anche se, ne sono certo, molti di voi lo riconosceranno attraverso le foto. Il motivo della mia decisione? Sempre lo stesso: preservare e salvaguardare un tesoro di inestimabile valore, che ha attraversato le pieghe del tempo giungendo fino a noi. Una perla di rara bellezza che, come tutte le cose materiali di questo mondo, risente però dello scorrere del tempo e della natura che si fa strada, giorno dopo giorno, riprendendosi i suoi spazi. Senza contare la minaccia peggiore per la sua sopravvivenza: l’uomo. Lo hanno testimoniato i numerosi murales e i tanti segni di devastazione recente, come alcune pietre dei ruderi accatastate al centro del piazzale, allo scopo di allestire un falò.

Ma l’uomo, per fortuna, non è soltanto capace di distruggere. Non mancavano infatti i segnali di alcuni recenti tentativi di ricostruzione. Tentativi che hanno coinvolto anche il complesso principale e la stessa chiesa. Progetti che, alla fine, come spesso inevitabilmente accade nel nostro paese, specie per mancanza di fondi e di incentivi, sono stati – a quanto pare – definitivamente abbandonati.

Pavullo nel Frignano: ascesa al “Montecuccolo”

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Pavullo nel Frignano, 3 agosto 2019Passeggiare dovrebbe essere di vitale importanza come respirare, eppure, gli impegni non fanno che moltiplicarsi giorno dopo giorno, accavallandosi fino a toglierci il respiro.

Il sabato mattina, dopo una settimana bella intensa, lo trascorro di norma tra riposini e faccende domestiche (più faccende che riposini). Ma quando la Compagnia delle Guide Valli Bolognesi ti segnala un bel trekking facile facile in Pavullo del Frignano… che fai, non ti aggreghi?

E via di sveglia alle 6.30 del mattino!

Non ero mai stato a Pavullo prima d’ora e, per raggiungerla in auto, ho preferito seguire un percorso panoramico, che attraversa alcuni caratteristici paesini, tra cui Pietracolora e Montese.

Giungo sul luogo dell’appuntamento alle 9 in punto, spaccando il minuto come solo gli svizzeri sanno fare. La nostra guida, Federica (ricordate la passeggiata con gli asinelli?), è lì ad attenderci e, in breve, ci vengono incontro gli altri trekker.
Il nostro gruppo consta di poche anime, vuoi per il timore del caldo, vuoi perché la gente “normale”, di questi tempi, si gode le vacanze in spiaggia. Ma la giornata si preannuncia frizzante, e il temporale della sera prima sembra aver contribuito almeno in parte ad attenuare la canicola dei giorni precedenti.

Prima di partire, i miei compagni di trekking si cospargono di spray antizanzare, mentre io preferisco proteggermi con la crema solare. Meglio punto che ustionato, mi dico. Ma Federica ci rassicura confermando che gran parte del cammino sarà all’ombra.

Non ci resta dunque che incamminarci. Attraversiamo una stradina pedonale e ciclabile di recente realizzazione, che costeggia l’aeroporto di Pavullo. Poi arriviamo… un momento……… Aeroporto? Che aeroporto?
Già, a quanto pare, la ridente cittadina di Pavullo è provvista anche di aeroporto. Ma non pensate agli aerei di linea, eh! Si tratta infatti di un piccolo aeroporto – un tempo militare, ora civile – utilizzato per attività di aviazione generale, business aviation, aviazione da diporto e sportiva, e per l’esercizio di funzioni di Protezione Civile e soccorso. Al suo interno, gestita dall’Aero Club Pavullo, è presente sia una scuola di volo per pilotaggio di alianti, sia una scuola di volo a motore per apparecchi VDS, basici ed avanzati, con la possibilità di effettuare voli propedeutici all’attività didattica.
La pista, difatti, non è lunghissima, e al termine della stessa vediamo radunati in fila una serie di alianti.

Lasciandoci l’aeroporto alle spalle, ci inoltriamo nel bosco. Il fresco del sottobosco e un leggero pendio rendono la nostra scarpinata piacevole e per nulla impegnativa, come ci era stato promesso.

Non molto tempo dopo, vediamo spuntare alcune case. Siamo nel borgo che ospita il Castello di Montecuccolo, il quale ci appare dinanzi come per magia, una volta sbucati nel crocevia sul quale si affaccia anche la chiesa di San Lorenzo.
Dopo esserci abbeverati a una fonte, ci dirigiamo al castello, che di certo merita una visita approfondita. Il suo nome si deve alla famiglia Montecuccoli, che vi si insediò nel XII secolo. Ma a portare alta la bandiera di tale casata è stato senza dubbio il prode Raimondo Montecuccoli, generale delle armate imperiali, che nel 1664 ebbe il merito di fermare l’avanzata turca su Vienna nella battaglia del fiume Raab.
Non a caso, una parte del sentiero CAI che abbiamo attraversato, è anche nota come “Sentiero del Generale”.

Il castello si presenta in ottime condizioni, merito soprattutto di un notevole lavoro di restauro effettuato in tempi recenti, che lo ha salvato da quello che sarebbe stato un inevitabile declino.
All’interno è presente il CeM (Centro Museale Montecuccolo), che ospita due collezioni permanenti, una dello scultore Raffaele Biolchini, intitolata “La Donazione”, e l’altra del pittore Gino Covili, intitolata “il paese ritrovato”. Inoltre, è presente il Museo Naturalistico del Frignano “F. Minghelli” che, davvero ben fornito, si occupa di documentare la storia e la realtà faunistico-vegetazionale del territorio frignanese.

Visitate le varie mostre, ci concediamo una sosta tra le mura esterne per un piccolo spuntino, al termine del quale, Luca, con la destrezza di un abile pistolero, ci stupisce nell’estrarre il suo praticissimo porta-banana, guadagnandosi il favore e l’ammirazione di tutti. 😀

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Terminata la piccola parentesi goliardica, ci rimettiamo in marcia e, dopo pochi passi raggiungiamo una piccola vetta sormontata da una croce di legno. Da lì in poi ricomincia la discesa.

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Sostiamo per la pausa pranzo nei pressi di un bellissimo casolare realizzato con tronchi d’albero. Il percorso ad anello è quasi completato e non manca molto per tornare giù in paese. Quindi, ce la prendiamo comoda e, una volta ripartiti, seguiamo i pali del metanodotto disseminati lungo il sentiero, a far da monito ai pellegrini che abbandonano gli incontaminati boschi per fare ritorno alla tecnologica e inquinata civiltà.

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Sopra le nostre teste, un aliante svolazza in circolo sfruttando le correnti ascensionali, ricordandoci a tratti la poiana avvistata poco prima, segno che il passaggio dalla natura all’infrastruttura è ormai del tutto completato.

Siamo rientrati prima del previsto e un po’ ci dispiace. Ma la buona notizia è che avrò tempo per fare un paio di lavatrici e stendere i panni ad asciugare prima di sera. Bentornata, routine. Mi attendevi con ansia, non è vero?

La maledizione di Fiammineda…

Ricordate la visita del sottoscritto e del prode CaRfa al borgo di Pianaccio (paese natale di Enzo Biagi) e al borgo abbandonato di Fiammineda? No? Niente paura, potete rinfrescare la memoria giusto QUI.

Letto? Bene…
Anzi… non troppo bene. Almeno per me 😀

Lo so, non è la prima volta che mi assento dal blog per un lungo periodo. Ma stavolta… posso ritenermi giustificato.

Ho imparato una lezione importante da questa esperienza, e cioè che non bisogna mai parlar male di un borgo o di una casa abbandonata. Perché gli spiriti – o qualunque altra cosa vi alberghi – potrebbero non prenderla troppo bene.

Quel giorno, raggiungere Pianaccio si è rivelata già impresa insolitamente ardua, e Fiammineda, diciamolo, non ci ha fatto letteralmente impazzire. La cosa più sensata sarebbe stata tenercelo per noi, invece di spifferarlo ai quattro angoli del borghetto mentre ne ammiravamo delusi i ruderi, guadagnandoci ad ogni passo e ad ogni parola le sue vendette e i suoi anatemi.

Già, agli spiriti non deve aver fatto esattamente piacere essere snobbati da due avventurieri da strapazzo. Ma a quanto pare, almeno il prode CaRfa deve godere di una sorta di immunità alle maledizioni, dal momento che è vivo, vegeto e sempre in piena attività; mentre l’unico ad aver subito gli effetti del morbo pestilenziale-quasi-mortale è stato il sottoscritto.

In compenso, abbiamo approfittato del breve e sbrigativo tempo trascorso a Fiammineda per scattare qualche foto inquietante. Non spaventatevi se ogni tanto vedrete un pirla incappucciato far capolino tra alberi e liane. Si tratta dello stesso tizio che scrive il qui presente articolo e che ancora prega di potere rivedere la luce del sole quanto prima.

Bando alle ciance, vi presentiamo l’opera di Fabrizio Carollo dal titolo “Fiammineda’s Hunter“.
Speriamo non sia ulteriore motivo di incazzatura da parte degli spiriti del bosco
Lo giuro, l’abbiamo fatto in buona fede. Risparmiatemi, vi prego…

Teggiano: tra storia, tradizione e gusto

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Esiste un antico borgo in provincia di Salerno, uno dei centri storici più importanti del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Sto parlando di Teggiano, ex Diano, altura che domina la valle sottostante a cui ebbe il merito di dare il nome: il Vallo di Diano.
Teggiano è un borgo di origini assai remote, anche noto come la città-museo, o ancora come la città delle 13 chiese. Perché 13 sono le chiese scampate all’inesorabile scorrere del tempo e ai terremoti che hanno scosso l’antica roccaforte nei secoli. E se pensate che siano tante, immaginate che un tempo ce n’erano almeno una cinquantina.

Su tutte, spicca la Cattedrale di Santa Maria Maggiore. A seguire, è doveroso citare le Chiese/Convento di San Francesco della SS. Pietà e di Sant’Agostino, la Chiesa di Sant’Antuono, la Chiesa di San Martino, la Chiesa di San Pietro (che ospita il Museo Diocesano), la Chiesa di San Michele Arcangelo (con il sottostante Lapidario Dianense), la Chiesa della SS. Annunziata e la Chiesa di Sant’Andrea.

San Cono e San Laverio rappresentano i santi patroni della città. San Cono è particolarmente venerato, a cominciare dall’Obelisco a lui dedicato nel piazzale che affaccia sul corso principale. E’ impossibile, poi, non notare i tanti manifesti in suo onore affissi ai balconi di numerose abitazioni. La comunità è talmente devota alla figura del santo, da venerarlo più volte nel corso dell’anno:

  • 3 giugno: Festa patronale in onore di San Cono patrono e protettore della Città e della Diocesi di Teggiano-Policastro.
  • 1ª domenica di agosto: Pellegrinaggio in onore di San Cono al Monastero di Santa Maria di Cadossa dove San Cono morì.
  • 27 settembre: Festa della traslazione delle reliquie di San Cono dal Monastero di Santa Maria di Cadossa alla città di Teggiano.
  • 17 dicembre: Festa del patrocinio dei santi patroni San Cono e San Laverio dopo lo scampato pericolo dai terremoti del 1857 e del 1980.

L’appellativo di città-museo si deve innanzitutto al borgo stesso, un vero e proprio museo a cielo aperto, nonché ai numerosi musei presenti sul territorio. Degno di nota è sicuramente il Museo Diocesano, alloggiato nella dimessa Chiesa di San Pietro, che custodisce una ricca raccolta di opere pittoriche e scultoree medievali di gran pregio. Oggi, chi visita il Museo Diocesano, ha la possibilità di integrare la visita del museo con quella al Lapidario Dianense, inaugurato il 24 luglio scorso. Il Lapidario è situato sotto la Chiesa di San Michele Arcangelo, collegato alla suggestiva cripta di Santa Venera, e raccoglie le testimonianze teggianesi di epoca classica, medievale, rinascimentale e moderna. Attorno al Lapidario aleggia anche la storia del ritrovamento di una bara, contenente le spoglie di un soldato medievale, ancora vestito della sua uniforme. Si racconta che all’apertura della bara, i resti del milite ignoto, entrati a contatto con l’ossigeno, si siano accartocciati su se stessi. Difficile dire se questa storia sia vera o sia soltanto una leggenda, dal momento che non sono mai state trovate tracce della bara e del suo contenuto, mentre il tutto si riduce alla mera trasmissione di testimonianze orali.

Altri musei che vale sicuramente la pena visitare sono: il Museo delle Erbe, il Museo degli Usi e delle Tradizioni del Vallo di Diano, il Museo di San Cono, il Museo della Memoria e dei Ricordi.

L’opera centrale e di maggior prestigio della città di Teggiano è senza dubbio il Castello dei Principi Sanseverino, oggi Castello Macchiaroli, dal nome degli ultimi proprietari che lo hanno acquistato nel 1800 e ai quali appartiene tuttora. Fu la potente famiglia Sanseverino a far costruire il Castello, che elessero a roccaforte dove potersi rifugiare in caso di pericolo.

Maggiori informazioni sulla storia di Teggiano, del suo Castello e delle sue chiese, possono essere reperite sul sito del Comune di Teggiano.

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Teggiano è anche famosa per la sua caratteristica festa medievale, intitolata “Alla Tavola della Principessa Costanza“,organizzata dalla Pro Loco Teggiano con la collaborazione del Comune, della Regione Campania, del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni e della Banca Monte Pruno. La festa, giunta oggi alla sua XXIII edizione, si ispira alle nozze del 1480 tra Antonello Sanseverino, Principe di Salerno e Signore di Diano, e Costanza, figlia di Federico da Montefeltro, il grande Duca di Urbino. I due sposi, dopo le nozze, si recarono in visita a Diano, dove l’intero feudo organizzò sontuosi festeggiamenti in loro onore, evento che viene rievocato annualmente (dall’11 al 13 agosto) nella celebre festa, inaugurata dal Corteo Storico che sfila tra le strade cittadine e arricchito dalla presenza di Sbandieratori, Trombonieri, Menestrelli, Musici, Saltimbanchi, Giocolieri e tantissimi altri figuranti. L’evento prosegue fino a tarda notte, culminando nella suggestiva riproduzione dell’Assalto al Castello del 1497, che ha luogo alle 00.45 e vale sicuramente l’attesa.

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Una festa medievale a tutto tondo, dove non manca veramente nulla, nemmeno il Banco di Cambio, dove c’è la possibilità di cambiare le banconote moderne con gli antichi Coronati, Ducati, Tarì e Tornesi. Le monete si possono spendere presso le varie Taverne, strategicamente dislocate lungo il golosissimo e interessantissimo itinerario gastronomico e culturale, che offre non solo assaggi delle ottime pietanze locali (come dimenticare la prelibata carne di cinghiale!), ma una visita approfondita dell’intero borgo attraverso i suoi vicoli, le chiese e i musei sempre aperti per l’occasione, nonché le ricostruzioni e ambientazioni delle botteghe degli antichi mestieri (l’arte del fabbro, della terracotta, della pietra, della seta, del coniatore, dell’orafo, del vetraio, del cuoiaio, del cordaio, del maniscalco, del ricamo, della tessitura, della filatura, dello speziale, dello scrivano). Anche il Castello Macchiaroli viene aperto al pubblico in occasione della festa, accogliendo mostre di vario genere che ricolmano la vastità dei suoi interni, dal primo all’ultimo piano.

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Restando in ambito gastronomico, mi preme aprire una piccola ma deliziosa parentesi.
Chi si reca a Teggiano in qualsiasi periodo dell’anno, non può di certo esimersi da una visita al G.T. Store. Accolti dalle intrepide e simpaticissime sorelle Vincenza e Anna, non si può non buttare l’occhio su uno degli scaffali interni, dove troneggiano in bella mostra i due tipici liquori teggianesi: l’Amaro Teggiano e il Lux Dianensis, l’elisir al mirtillo creato in onore di San Cono. Il loro gusto pieno e la particolare dolcezza, alla stregua di un potente filtro stregonesco, cattureranno il vostro palato in men che non si dica. Con me ha funzionato, nonostante non posso dirmi il massimo esperto e simpatizzante in fatto di liquori. 😀
L’Amaro Teggiano, miscela di ben otto erbe, è un perfetto digestivo che ben si abbina ad ogni tipo di pasto, e in particolar modo ai dolci, per i quali è molto indicato anche come ingrediente. Infatti, sto già pensando di sfruttarlo come bagna per un favoloso babà, o per un soffice Pan di Spagna. Magari, perché no, anche in un bel tiramisù!
Complimenti, ragazzi, e buon lavoro! Tornerò presto a fare rifornimento… si spera. 😉

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Ora, non avete più scuse per non visitare Teggiano. Quello che vi ho raccontato è solo l’infinitesima parte di ciò che questo meraviglioso borgo ha da offrire. Perciò, se non sapete dove trascorrere la prossima domenica o il prossimo giorno di ferie, Teggiano sarà la soluzione al vostro dilemma. Che aspettate, ordunque? Non vi resta che saltare in macchina e partire!